Rapolano Terme, il Presepe monumentale 2025

Quest’anno il Presepe monumentale di Rapolano Terme prende spunto da una frase di Papa Francesco inserita nel saggio “Laudato si” pubblicato esattamente dieci anni fa: ” Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli”.

L’arte presepista rapolanese è fra le più rinomate e conosciute in questo ampio settore di appassionati, per la scelta dei materiali, inventiva degli effetti speciali, scorci del paese o delle frazioni che diventano il set di una nascita che si ripete da oltre duemila anni.

Rapolano e la sua campagna ai primi del Novecento è il tema scelto per il 2025, con il paese che svetta sulla collina cinto dalle mura e con sole due case coloniche intorno, esattamente come si presentava il paese cento anni fa.
C’è il forno acceso con il fuoco e il pane dentro, c’è il pagliaio, il camino da cui esce il fumo, lo stagno con le nane da cui si alza improvvisa una leggera nebbia poco prima che inizi a nevicare e il cielo si volge al tramonto.
Scene di una campagna immacolata dove niente veniva lasciato al caso perchè ogni azione comportava un ragionamento e un motivo di sostentamento per le famiglie contadine che erano da sempre in simbiosi con la natura.
E se è vero che da una palata di sterco possono nascere ortaggi o grano, è troppo più difficile che da un telefono o da una tecnologia non sorretta da ragione, lo sterco diventi ortaggio.

Il Presepe monumentale è visitabile nella chiesa di San Bartolomeo in Piazza del Castellare nei giorni festivi, dalle ore 10.30 alle 12.30 e dalle 15.30 alle 19.30; il sabato e nei giorni non festivi antecedenti la festa solo dalle 15.

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Primavera, il film su Antonio Vivaldi

Venezia, 1716. Cecilia è un’orfana che la madre ha affidato all’Ospedale della Pietà, e come le altre ospiti dell’istituto ha imparato a leggere, scrivere e soprattutto suonare uno strumento musicale, nel suo caso il violino. Le musiciste più dotate dell’orfanotrofio si esibiscono in pubblico dietro ad una grata perché non possono farsi vedere in volto, e sono di fatto prigioniere finché non vengono date in sposa a qualche pretendente disposto a pagare una cospicua dote all’istituzione.

Quando la loro offerta musicale subisce la concorrenza di un gruppo parallelo, le ragazze vengono affidate alla guida di un prete di grande talento ma fallimentare come impresario musicale. Si tratta di Antonio Vivaldi, malato e caduto in disgrazia, ma ancora in grado di commuovere profondamente il pubblico. E Vivaldi intuirà in Cecilia un talento simile al proprio, e un’analoga passione per la musica.
Un film splendido con al centro il riscatto femminile nella Venezia dei primi del Settecento, Primavera è liberamente tratto dal romanzo Stabat Mater di Tiziano Scarpa (Premio Strega 2009).
Grande interpretazione della giovane Tecla Insolia, come grande è l’interpretazione di Fabrizia Sacchi, Andrea Pennacchi, Michele Riondino, opera prima del regista Damiano Michieletto.
E’ durante il periodo in cui si svolge il film che nella vita reale il Maestro Vivaldi iniziava a comporre il suo capolavoro delle “Quattro stagioni”, autore caduto nel dimenticatoio e riscoperto con il ritrovamento di alcune partiture ai primi del Novecento grazie al musicologo Alfredo Casella che nel 1939 organizzò con il conte Guido Chigi Saracini la prima settimana della musica di quella che diverrà l’Accademia Chigiana, totalmente dedicata ad Antonio Vivaldi.
Il film è da vedere e rivedere, è necessario il passaparola per decretarne il grande successo che merita.

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I funghi porcini della Berardenga

A norma di legge, sono scaduti i sessanta giorni di stasi previsti prima della firma del contratto di fronte al notaio – ondaiolo – Coppini, per cui nel giorno della vigilia di Natale il futuro della Villa Chigi Saracini è diventato Pubblico ed è una notizia radiosa che accende queste giornate di festa.
Pareva il sogno di alcuni visionari il destino Pubblico di una villa che è sempre stata avulsa dalla vita del paese, prima come residenza dei Saracini, quella pochina di musica che oltrepassava gli ampi muraglioni di cinta durante i concerti tenuti per l’alta società dal conte Guido Chigi, poi per essere finita nella galassia del Monte dei Paschi dopo la scomparsa del conte senza eredi.
Capitoli di storia passata, mentre la storia presente e futura sarà tutta da scrivere ed è certo che saranno delle belle pagine, ma per illuminare di prestigio e fascino questo luogo bisognerà che si inizi a mettere mano alle cattive abitudini che sono diventate una consuetudine.
Una Villa Chigi capitale della cultura con un contorno di elettrodomestici, materassi, forni e stendini sparsi un po’ in tutto il paese con un’allegoria di macchine lasciate ovunque – più o meno a giornata – nei luoghi più rinomati per il divieto di sosta (passaggio di residenti o ambulanze) non sono un bel biglietto da visita per un paese che si prefigge di produrre partecipazione, allargare gli orizzonti e le menti.
Prima di iniziare a produrre cultura e aprire al pubblico i cancelli della Villa, sarebbe opportuno che la meritoria Amministrazione Comunale parta (educando) dalle piccole cose e progetti di togliere il calcare indurito delle cattive abitudini che si è sedimentato da decenni. Fonte: Il Gazzettino del Chianti

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Auguri Fabio Giomi

Il bruchi fanno tutto il lavoro, ma sono le farfalle a prenderne la notorietà.

La storia di Fabio Giomi (il cassiere PAM licenziato in tronco a Siena dopo il “test del carrello”, ovvero un finto tentativo di furto) è uscita ben fuori la tranquilla e placida linea del gotico senese.
Le sue vicissitudini hanno commosso e indignato, il suo rigore morale di non voler accettare di farsi da parte anagraficamente e poi (per il clamore mediatico che ha suscitato il caso) ha rifiutato il reintegro dopo che l’azienda ha avanzato la proposta di trasformare il licenziamento di Giomi in una sospensione disciplinare di dieci giorni.

Presso il Tribunale di Siena il 29 dicembre si terrà la prima udienza davanti al Giudice del lavoro per valutare il licenziamento e le procedure adottate dall’azienda.

“La nostra vita comincia a finire il giorno che diventiamo silenziosi sulle cose che contano” come ebbe a dire Martin Luther King. Cari auguri Fabio.

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Il presepe di Monte Oliveto Maggiore

Il motto dei monaci benedettini di Monte Oliveto Maggiore (pur non comparendo a chiare lettere nella propria Regola) è: “Hora e labora”, ma l’abito degli olivetani è costituito da tonaca, scapolare con cappuccio, cintura, cocolla e mantello bianchi, per devozione alla Maria di Nazareth.

Ciò comporta che possono svolgere molte attività, ma devono stare molto attenti in cucina a non farsi frittelle (che il bianco si pulisce solo in varichina) e meno che meno possono dare il ramato a mano nelle loro amate vigne.
Montare addosso la pompa dell’acquetta implica di intonacarsi la veste di ramato e il Papa romano e lupacchiotto non ammette che i suoi funzionari di zona siano vestiti da laziali.
In compenso i monaci hanno in cura un grande presepe meccanico allestito da Giancarlo Palazzi nella cripta dell’Abbazia con un ambientazione che prende spunto dal paesaggio delle Crete Senesi, con musica e cambi di luci… “E fu alba e fu tramonto”.
Poco distante si trova la vendita diretta di santini, cabernet, infusi e tisane.

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Chianti Classico La Lama, grandi artigiani del vino

Fin dalla notte dei tempi in cui la vite mise barbe in queste zolle etrusche, nacque un innamoramento sincero e fruttuoso in una delle zone più vocate del pianeta per produrre vini raffinati e duraturi nel tempo.
Nei dintorni di San Gusmè fino a quando le stagioni si susseguivano con la regolare ciclicità del sole e del gelo, i vini che ne uscivano – per piacevolezza e beva – potevano competere alla pari con chiunque.
Negli ultimi venti anni di inverni latitanti e mesi di clima torridi, è venuto meno ciò che le condizioni naturali climatiche rendevano facile, e si è dovuta affinare l’arguzia campestre per preservare al meglio il raffinato fascino all’interno delle bottiglie.
Nel piccolo è più facile applicare la costanza e la presenza per cogliere l’attimo migliore, sfogliare le viti alla bisogna in caso di umidità che si protrae o lasciare i grappoli protetti e riparati con la massima copertura delle foglie a fare a schermo al forno del sole.
Paradossalmente le zone più estreme messe in posizioni basse o alte, consentono di ottenere vini che fino a pochi anni fa erano impensabili, mentre i luoghi megli esposti tengono mani e mente in continuo moto per preservare eleganza.

La Lama è il classico podere a due passi dalla città di Siena che con la fuga dalle campagne da chi per generazioni e secoli si è occupato di allevamento e coltivazione, è stato rilevato da “inurbati” come casa di campagna per i fine settimana, facendo conto su un po’ di olio e vino buono per l’annata.
Alla fine degli annni ’60 venne rilevata dalla famiglia Campani con l’intenzione di avere un rifugio a due passi dalla città, nell’armoniosa ruralità intorno a San Gusmè, a breve distanza degli altisonanti squilli di Pagliarese e Castell’in Villa.
Alla produzione e commercializzazione di vino in bottiglia si arriva recentemente, ma dopo una lunga serie di prove e affinamenti per arrivare al concepimento del “Vino sublime”, riproposizione del più puro spirito “ricasoliano” dei nostri tempi.
La missione è perfettamente riuscita. Non c’è fretta e dalla cantina non escono giovani adolescenti, ma maturi e saggi esemplari la cui scomposta giovinezza è stata limata dal tempo in botti di rovere non tostato, la cui sosta si traduce in anni, dopo essersi spogliati del grosso con l’escursione termica dei serbatoi inox in cui i rossi sostano nel primo anno di vita.
Tra acciaio, botte e bottiglia, il vino non esce allo scoperto prima dei cinque anni di liceo in cui si stabilizza, affina, mette in mostra la pregevolezza al naso, sorretta dall’acidità che pulisce il palato: è un sangiovese sontuoso e commovente il Chianti Classico della Lama.
Al contempo c’è la voglia di diversirsi e di provare forme diverse: malvasia e trebbiano che da quasi trent’anni sono stati banditi dall’uso della miscela di uve per disciplinare di produzione per il Classico, ma che vengono reimpiegati nel più classico dei vini in aggiunta al sangiovese.
Nasce l’Indisciplinato 1924, un IGT che ha in se un ritorno alla tradizione per sfidare l’ardore dei tempi, far risentire la florealità e la beva a chi per età ha sorseggiato solo i “muscoli”, un sorso di giovinezza per chi è cresciuto nella brezza di calici piacevoli.
Tre ettari di vigna, quattro versioni, un piacevole Vermuth (malvasia e trebbiano) con le etichette disegnate dai ragazzi dell’Orto Felice, pareti coperte con cataste di bottiglie ad affinare, sogno realizzato di un vino raffinato e struggente.

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A Franco Innocenti il Premio Clante d’Oro 2025

Nasce a Firenze nel 1931, si laurea alla locale Università in scenze politiche e approda in America, ma per uno scherzo del destino apprende che la Walt Disney cerca dei disegnatori e a 26 anni viene assunto per quella che era la sua grande passione.
Rientra in Italia e inizia a lavorare per la Olivetti, nella città natale di Firenze.

Dal 1977, dopo un periodo trascorso a Milano, vive e lavora in una torre medioevale a Barbischio, frazione di Gaiole in Chianti.

A partire dagli anni Sessanta, affascinato dai pittori surrealisti, ha costantemente svolto una continua e intensa attività artistica nell’ambito del realismo fantastico, partecipando a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero.

Le Nazioni Unite hanno utilizzato diverse sue opere per manifesti e pubblicazioni in varie lingue.

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Pitigliano, città del tufo e del bianco

Elegante e sobria allo stesso tempo, eretta e in profondità, scavando sulle rughe coriacee del tufo.
Splendido esempio di come alle costruzioni antiche si opponga una parte moderna – che poteva essere presa d’esempio – decisamente priva di gusto, se non nei primi edifici ottocenteschi eretti fuori le mura.
L’ufficio postale – in puro stile termosifone – messo a strapiombo sul cimitero è il tipico esempio di come fra pagare e morire è un tutt’uno.
Il lazio papale è a due passi e le zone paludose che erano dei dintorni vennero bonificate in epoca lorenese, rendendo l’aria molto più salubre.

Il territorio comunale è piccolo, la popolazione risiede per la maggior parte nel capoluogo e in tante case sparse che da poderi si sono trasformati in efficenti agriturismi.

Al suo interno c’è il famoso Ghetto, centro vitale di una comunità ebraica ben integrata e accogliente verso quelle persone che non avevano la stessa considerazione all’interno del vicino stato pontificio.
Romanticamente la sera il tufo si accende delle luci del tramonto, il camminamento posto davanti alla città distesa è un ottimo rifugio per leggere, fare due chiacchiere, ammirare come la storia e il tempo facevano fare le cose con estrema bellezza.
Intorno le vigne di trebbiano da cui esce il gran bianco da pasto di Pitigliano.

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Ruota di carro agricolo

E’ presente nella lista dei Beni demoetnoantropologici del Catalogo Generenale dei Beni Culturali.

La ruota, di legno, è costituita dal mozzo centrale e dai raggi, detti razze, che vi si incastrano e che all’estremità opposta si incastrano nel cerchio o corona. Tale corona generalmente è costituita da più settori, detti gavelli: questa è invece un pezzo unico di legno curvato. Un cerchione di ferro, calzato a caldo, serra le varie parti e dà solidità all’insieme.

La realizzazione di tale tipo di tuota consiste innanzitutto nel disegnarla a grandezza naturale nelle dimensioni desiderate. Si costruiscono quindi in legno i vari pezzi e si fanno gli incastri con uno scalpello adatto, detto badano. Il fabbro completa con cerchioni di ferro internamente ed esternamente il mozzo e calza a caldo il cerchione sulla corona con uno strumento apposito, detto cagna, fissandolo con bulloni di ferro a testa tronco conica.Il mozzo non è mai situato in asse verticale rispetto al cerchione, ma leggermente arretrato: si ottiene così una maggiore resistenza al carico ed il peso viene scaricato dal cerchione maggiormente sul bordo esterno della ruota a veicolo vuoto. Ruote di legno si usano ormai solo per carri e carretti a trazione animale, carrozze a cavalli e carriole a mano.

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Le parole come pietre di Volpaia

Tetti e strade umide, parcheggio vuoto, silenzio rispettoso e tombale.
Come cambiano le stagioni con i mesi che portano luce, calore e chiasso, con quando arriva la debolezza di luce e calore.
Pare di essere tornati paesi normali – se non fosse per quei pochi residenti rimasti – che sopravvivono e si rilassano dopo le invasioni più o meno barbariche dell’industria pesante turistica. Volpaia d’inverno è un incanto.

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